Sabato 22 febbraio 2020, alle ore 18 presso la sede dell’Aab in vicolo delle Stelle 4 a Brescia, sarà inaugurata la mostra “Silvana Lunetta e la pienezza dell’indefinito”, con la partecipazione di Andrea Barretta. La mostra sarà aperta dal 22 febbraio all’11 marzo 2020, con orario feriale e festivo dalle 16 alle 19:30, tranne il lunedì.

Recensione di Andrea Barretta
Una mostra antologica che riprende le tappe principali della sua lunga esperienza artistica. Un percorso intrapreso attraverso lo studio dell’arte arrivando a risultati che a loro volta conducono a un linguaggio espressivo nuovo, quale metafora di una ricerca esistenziale, osteggiando lo svilimento e il decomporsi della realtà contemporanea. Anziché l’immagine figurativa ecco allora l’astrazione lirica, la forza ideativa di una situazione culturale che vede la migrazione verso diversità di definizioni su tracce a volte enigmatiche, altre con pennellate cariche di colore, talora essiccato e poi frammentato, in grado di evocare pulsioni non già incontrollabili che danno la stura a un’altra rappresentazione autonoma seppur riconducibile all’informale.
Frutto esauriente anche per le sue sculture raku e fin dal suo primo passaggio artistico dal disegno a matita e a china – in cui eccelle e di cui ci aspettiamo una personale dedicata – all’incisione e ai primi collage in tecniche miste che compendiano questi primi spunti per una stasi nell’attuale e ultimo ritorno alla pittura. Un dettato, dunque, che non può non iniziare dal suo cammino creativo che ritroviamo in scelte compiute come risposta al presupposto di avvedutezza estetica, né senza tenere conto del riferimento all’attributo visivo che assumerà un’importanza decisiva negli ultimi quindici anni, nell’esigenza dello spazio da configurare sulla tela.
Basti allora, come introduzione, indicare questi temi e tecniche che vediamo in questa mostra all’Associazione Artisti Bresciani a mo’ d’indagine nell’arte di Silvana Lunetta. Da un lato gran parte dei lavori dal 2005 in poi che riconducono a uno stile riconoscibile nell’intreccio dell’essere e dell’agire che incontrano l’inconscio e costituiscono composizioni che divengono palcoscenico in una rappresentazione che ci fa quasi vedere l’artista all’opera, con l’uso di acrilico e olio, di carte dipinte, elementi vegetali, cotone, juta, sabbia, stoffe, foglie oro e poi strappi di fotografie. Dall’altro, nel primo approccio introduttivo nell’allestimento e nel catalogo, il primordiale segno all’acquaforte che ha inciso negli anni Settanta su lastre che dal torchio riproducono sensazioni e paesaggi della sua Sicilia, presentate alla “Galleria dell’incisione” di Venezia nel 1983 (vi ritornerà nel 2004), così come chine degli anni Ottanta e dal 2001 che si fanno colorate, e infine gli ultimi lavori del 2019 e 2020 che segnano, appunto, la pittura pura.
Silvana Lunetta fin dalla sua attività di docente ha trasmesso e sente di essere curiosa della vita, e questo già adolescente a incantarsi nei luoghi d’arte siciliani dalla sua natia Caltanissetta e in seguito nell’andare per musei in Europa, per poi giungere a Brescia nel 2011 e l’anno successivo già con una sua personale alla “Galleria ab/arte” con una monografia a mia cura richiesta dal Metropolitan Museum di New York.
La sua prima esposizione, invece, risale al 1975, cui seguirà proprio la pratica con la calcografia alla Scuola Internazionale di Grafica di Venezia (dove esporrà nel 1992) con i maestri Riccardo Licata e Nicola Sene, e con la ceramica a Firenze e a Faenza per approfondire la tecnica Raku in rilievi d’ingobbi e colature di manganese.
Un’artista testimone del proprio tempo che propone un divenire culturale memore dell’accompagnarsi con intellettuali quale il poeta Alfonso Campanile che le dedica un suo componimento, il francescano algerino Jean Albert Derrien, docente a Parigi, e lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia. Poi Giacomo Baragli che la presenta in una personale a Palermo nel 1983, e Ignazio Buttitta che sul frontespizio di un suo libro le scrive una dedica, e attenzioni dallo storico dell’arte Giovanni Bonanno. Sì, ne è passato del tempo da quella prima personale presentata dal poeta autore di “L’ultimo quarto dell’antica luna”. Sono trascorsi molti anni e lo scrittore ricorda, in uno dei tanti cenacoli insieme quando, per la prima volta, aveva avuto occasione di vedere i suoi lavori: “Erano tele e disegni dai quali traspariva in chiave di astrazione simbolica un’interiorità che andava svolgendosi per esprimersi già con una ben rilevabile individualità, con un taglio personale non eludibile. (…) Oggi … – racconta – ci propone l’offerta leggibile (…) della natura, una seria attenta poetica mediazione, guidata da una sensibilità affatto comune. … Anni di assiduo lavoro, di assiduo scavo, di ininterrotto approfondimento”.
Le opere dal 2008 agli inizi del 2019 sono magma informe di energie in un neospazialismo che suscitano superfici sovrapposte che si perdono nella profondità percettibile non concettuale, nel tagliare e ferire le materie che usa, frantumarle o tenerle insieme, in cui è evidente la componente dell’io che s’identifica nel pragmatismo della sopravvivenza. E poi la babele, la confusione, a prima vista il disordine … l’esplosione del colore che sostituiscono l’estensione temporale per diffondere la conclusione di un ciclo cui si affianca il desiderio di un futuro ancora tutto da costruire, coscienza libera da un mondo in crisi, rifugio e non fuga in vedute, dove l’esistente è l’inesistente e dove l’artista testimonia la disillusione dell’uomo nuovamente emarginato.
L’autenticità di Silvana Lunetta è tutta qui, nel dare profilo all’informe, nella legittimazione di una speranza di riscatto e il coinvolgimento totale di corpo e spirito smembrati da slanci espressivi che tentano di dare un senso alla vita, a situazioni lacerate da rassegnazioni nichiliste, di visioni misticheggianti. La sua è una denuncia gestuale nello spazio di una tela, come interazione negli anfratti del pensiero, come ritorno a un’arte impegnata nella realtà sociale, valore che si esaurisce se non è in grado di compromettersi e raccontare quell’idealismo di credere che l’arte possa servire a cambiarla per costruire un mondo in rapporto all’uomo. E lo fa da donna quale riconoscimento dell’impegno a sostituire vecchi linguaggi, nell’impraticabilità delle attese delle avanguardie realizzate solo in parte, in una rivoluzione che non ha saputo tenersi lontana dall’ideologia e dal denaro. Fuori da questo fallimento, fuori dai palazzi, e persegue azioni emotive in un mondo sgomento davanti all’irresponsabilità e alla follia di vicende umane.
La sua è una sperimentazione continua, e va per una sua strada in rapporto all’arte, non provocatoria per attirare attenzione ma sostanza-materia, inestricabile dicotomia che ha influenzato molti grandi artisti e filosofi, da Platone in poi. E sceglie la creatività a integrare l’utilizzo di olio e acrilico, per esprimersi in modo personale creando una sorta di muri scrostati che evocano la semplicità di un’armonia dall’atmosfera e di pigmenti ridotti anch’essi a semplice sostanza materica. Oggi la nostra artista nissena è specchio di un villaggio globale che caratterizza un cantico all’indefinito nel percepire l’astrattismo delle idee di una società ormai da emendare. E ne esplora le caratteristiche visive e tattili, rifiutando ogni concetto di forma, cercando di slegarsi dal senso impoltronito dell’annodare ricordi, e si nutre di significante estetico.
Così gli ultimi lavori nel rigore di strati spessi e rugosi di colore, colpi di spatola, quasi a cercare il senso del vivere, incantata dalla fisicità nelle pieghe pittoriche come realtà indipendenti. Perché mette sulle sue tele valenze semiologiche dalle potenzialità di esperienze che descrivono in pieno la sua personalità: razionalità e istinto. Ed erompe un attento confronto con la sua pittura del “mettere”, perché sostanzialmente è un “insieme” in cui c’è la genesi di presenze a completare aspetti vibranti. Altresì possiamo dire che sente sulla propria pelle il dissesto delle istituzioni, negli avvenimenti della cronaca che cambiano le direttive della convivenza tra diversi e che a loro volta generano diversità. E sente il bisogno d’intervenire, con i dispositivi della pittura per affrontare i mutamenti culturali che hanno etimologie molteplici, sviscerate su tracce d’istanze in cui porre l’ambito di una decodificazione del lato oscuro e alienante dell’umanità.
Cosiffatta l’arte di Silvana Lunetta sta nell’armonia, alimento per le sue opere contro la disarmonia politica e sociale. E sta nel rigore semantico che vede “oltre”, dal disegno al dipingere, a tecniche diverse in cui sedimentare soggetti convenzionali da evolvere nell’immaginario, per trovare altri risultati rispetto a quelli già acquisiti. E continua a impegnarsi ricorrendo all’assolutezza cromatica, oltre codici da cui uscire più per rispetto dell’inedito che per motivi immanenti, tanto che riesce a esprimere corporeità che descrivono la prospettiva d’infinito, nel risveglio di un’idea come valore da definire in un progetto concreto.
In ciò connota la ricostruzione di un discorso interrotto dalle neoavanguardie, quando la definizione del ripudio, sul piano dell’arte, non corrisponde più a nessun movimento di protesta odierno. Tant’è la determinazione per quanto richiede la lettura dei suoi quadri, come spiegazioni accettabili unicamente procedendo per sottrazione piuttosto che per aggiunte di successive descrizioni, in qualche modo eziologiche perché includerebbero impostazioni dialettiche eccessive. Premesse continue le sue. Distinguo tra il confine di un linguaggio di ricapitolazione e lo scontro ideologico nella collettività, in cui finisce per calare l’intenzione di sviluppare il tema dell’emergenza antropologica di questi ultimi anni, manifestata nel vissuto di tante battaglie sostenute anche per i diritti al femminile.
Sta in questo scorrere di valori estetici la sua identità nel riferimento allo straniamento che si addentra nei nostri giorni e rispecchia la grave carestia in cui sta l’etica. Sicché a emergere resta l’arte come accertamento di possibilità, nel contrasto che pone nel dosare traduzioni che siano paideia a una via da seguire verso una meta e non una sentimentale nozione, per un futuro nuovo da costruire. Perché il suo è un colloquio con l’uomo alienato e con quello privilegiato, entrambi figli della crisi economica globale, e fa sorgere quesiti per sollecitare un uditorio sostenibile per quanti potrebbero influenzare positivi recuperi nelle ultime urgenze geopolitiche. E realizza condizioni di sintesi nel confronto con la derivazione di reciproche sollecitazioni con il pubblico, in una denuncia che rimanda a soggetti mutuati come interazione negli anfratti del pensiero, nelle legittimazioni del connubio tra riflessione e coinvolgimento in un distinto stato d’immaterialità cui è giunta ma che si fa pienezza.
Andrea Barretta